Ripensare le politiche europee per un’Europa più unita e coesa

In maniera provocatoria e forse inconsapevole, Boris Johnson ha messo in evidenza un problema: che idea abbiamo di Europa unita e coesa e qual è il vero impatto delle politiche europee.

La scelta di Boris Johnson di non continuare con la collaborazione con l’Unione europea nel programma Erasmus+ ha lasciato tutti molto delusi, almeno da questa parte della Manica.

Personalmente, trovo un po’ pretestuose le giustificazioni portare dal premier inglese. A suo dire, il programma costerebbe troppo per il Regno Unito, a fronte di un bilancio squilibrato tra studenti Erasmus in ingresso e in uscita.

Non si capisce di quali costi stia parlando: perlomeno non esistono costi aggiuntivi significativi, a meno che il Regno Unito non si aspettasse che gli studenti Erasmus contribuissero alla copertura dei costi del sistema universitario. Una richiesta un po’ esorbitante, visto che stanno per un periodo limitato e non ottengono una laurea britannica al termine del periodo di mobilità.

Eppure Boris Johnson ha messo in evidenza un problema che secondo riguarda non solo il programma Erasmus, ma molte altre iniziative dell’Unione europea.

L’esperienza dell’Erasmus

Il programma Erasmus nasce con l’intento di permettere agli studenti europei di fare un’esperienza in un paese dell’Unione europea diverso dal loro.

Da un lato questo dovrebbe avere un impatto positivo sulle singole persone in mobilità. Chi partecipa ad uno scambio Erasmus può apprendere o migliorare un’altra lingua, acquisire una maggiore coscienza europea, per non parlare delle specifiche competenze apprese nell’ambito del programma di studi concordato.

Ma l’impatto più importante di Erasmus è sull’intera società europea: attraverso la “formazione” di cittadini dell’Europa si rafforzano le collaborazioni tra Paesi, al di là dei confini fisico-politici, linguistici e culturali.

Con più di 30 anni alle spalle (è nato infatti nel 1987), Erasmus è diventata l’iniziativa più significativa e visibile dell’Unione europea. La sua funzione simbolica è paragonabile al movimento dei gemellaggi tra città nato negli anni ʼ50 sulle ceneri dell’Europa post-bellica. Ad un certo punto “Erasmus” è diventata l’etichetta per presentare le nuove proposte della Commissioni, pensiamo a l’Erasmus per i giovani imprenditori.

Ad oggi, più di 10 milioni di studenti hanno partecipato al programma Erasmus nelle sue varie edizioni. Un numero impressionante che mostra come il programma sia riuscito a “mobilitare” i giovani cittadini per la costruzione dell’Unione europea!

Ma dopo più di trent’anni è però giusto porsi qualche obiettivo più ambizioso.

È sufficiente promuovere la mobilità in sé e per sé oppure conta anche come questa avviene? È giusto che la mobilità segua traiettorie prestabilite, verso i Paesi e le università più ricche, oppure verso gli stati più affini culturalmente o linguisticamente?

Un altro esempio: le traduzioni letterarie nel programma Creative Europe

Riflessioni analoghe valgono anche per altri programmi. C’è una linea di finanziamento del programma Creative Europe che sostiene la traduzione di opere letterarie mai in altre lingue dell’Unione europea. Anche qui l’obiettivo è rafforzare il livello di interazione tra le diverse letterature europee e far conoscere ai cittadini-lettori opere di altri Paesi europei.

Si tratta di un programma che mi ha fatto conoscere, come lettore, alcuni degli autori per me più importanti. Penso in particolare a Kader Abdollah, autore iraniano trapiantato nei Paesi Bassi e che scrive in nederlandese. Non so se l’editore italiano Iperborea avrebbe mai affrontato il rischio a tradotto i suoi lavori senza il supporto dell’Unione europea. (In questo caso credo di sì, perché Iperborea ha scelto come missione quella di occuparsi di letterature e lingue meno note.)

Non ho nessun dubbio sul valore di questa iniziativa comunitaria. Eppure dovremmo porci la domanda, se vogliamo realizzare un’Europa letteraria unita.

È prioritario sostenere l’accesso di opere letterarie nelle lingue “minoritarie” ai mercati più importanti in Europa, tramite questi, a livello internazionale, oppure è più importante favorire l’ingresso nei mercati editoriali più piccoli le nuove opere di altre letterature europee più solide e spesso in lingue molto diffuse come l’inglese, il francese e il tedesco?

Qualcuno potrebbe pensare che non si ponga questa alternativa, che non ci sia un aut-aut. Io ritengo invece che, ad un certo punto, diventi importante fare delle scelte.

Sola prima opzione permette non solo di sostenere un’impresa editoriale specifica, ma anche di dare un’immagine più ricca della cultura europea e – tramite l’accesso al mercato internazionale – rendere più solidi i mercati europei più piccoli. La seconda opzione, invece, soddisfa il primo degli obiettivi (quello a più breve termine) e forse non completamente. È probabile che autori noti internazionalmente (per esempio Salman Rushdie o Emmanuel Carrère) troverebbero comunque un editore nei Paesi UE più piccoli, anche senza il supporto dell’Unione europea .

Pensare politiche comunitarie con reale impatto

Sono due piccoli esempi e probabilmente altri se ne potrebbero fare.

Porsi questo tipo di domande significa meglio esplicitare qual è il nostro obiettivo, cosa intendiamo con termini spesso vaghi come Europa “unita” o “coesa”.

Per fare questo dobbiamo disporre e analizzare dati complessi e individuare innanzi tutto le ragioni di eventuali squilibri in Europa.

Il passo finale è quello di studiare (e testare) misure per correggere tali distorsioni o per raggiungere gli obiettivi meglio esplicitati. L’obiettivo è intervenire sul contesto senza introdurre distorsioni di sistema inutili o dannose.

In breve, questo significa studiare politiche con reale impatto per rendere l’Europa più unita e coesa.