Being a research manager: chi è e cosa fa chi si occupa di ricerca

Colleghe e colleghi di diverse università italiane stanno indagando sulla figura professionale del ‘research manager o administrator’. Spero che arrivino presto a trovare una risposta fondamentale: che lavoro faccio?

Un gruppo di lavoro sul “research manager o administrator”

Il gruppo di lavoro nasce all’interno di CODAU Ricerca. Sono coinvolte le università di Ferrara, Pisa, Torino, Siena, Roma Tor Vergata, Roma La Sapienza, Statale di Milano, Verona, Padova e di Modena e Reggio Emilia.

L’obiettivo è “analizzare e valorizzare la figura professionale del Research Manager and Administrator in Italia”, una figura che non è né di natura accademica, né tipicamente tecnico-amministrativo.  

Potete scoprire di più su questo gruppo di lavoro in questo documento di presentazione o seguendolo su LinkedIn.

La difficoltà di definirsi

Quando mi chiedono che lavoro faccio sono sempre in difficoltà. Trovare una risposta semplice e chiara, che eviti gerghi specialistici e sia comprensibile a chi non sa cosa sia la ricerca è una sfida continua.

Forse per questo una volta ho scritto che solo i Monty Python hanno saputo dare una spiegazione soddisfacente. E questo è solo una parte del mio lavoro, quello dell’assistenza alla ricerca di finanziamenti.

Sarebbe già un successo se riuscissimo a liberarci del termine inglese “Research Manager and Administrator” e del suo acronimo RMA, per trovare un nome italiano.

Un’esperienza analoga nel settore dello spettacolo dal vivo

L’iniziativa mi ricorda un vecchio progetto che ho avuto l’onore di elaborare e coordinare, finanziato dal programma Leonardo da Vinci II. All’epoca lavoravo in Fondazione Aida, un teatro stabile di innovazione.

Il progetto, chiamato Training on the stage, mirava ad analizzare le figure professionali di tipo amministrativo che nello spettacolo dal vivo (teatro, danza musica) lavorano a fianco delle figure artistiche (regia, attori e atrici, musicisti e musiciste…)  e delle figure tecniche (tecnici luci, macchinisti…).

Il progetto ha cercato di individuare quali sono le figure professionali, quali i compiti propri di ciascuna e di conseguenza quali le competenze richieste.

Cosa ho imparato da quella esperienza

Il confronto portato avanti tra enti di natura e dimensione diverse di sei Paesi europei (Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Polonia e Romania), al di là dei risultati specifici, ha messo in evidenza alcuni aspetti:

  1. Le figure professionali non esistono in astratto ma solo nel contesto concreto e la lodo definizione e distinzione reciproca dipendono dai modelli organizzativi di ciascuna azienda, dalla loro dimensione, dal sistema nazionale in cui si inseriscono e anche dalle diverse tradizioni nazionali;
  2. anche le competenze richieste variano, perché diversi sono compiti assegnati alla medesima figura;
  3. e di conseguenza l’analisi del fabbisogno di competenze dipenderà da caso a caso.

L’analisi delle figure professionali deve, per la natura delle cose, accettare di lavorare con concetti intrinsecamente vaghi e con somiglianze di famiglia. Ogni tentativo di forzare questi limiti porta a risultati inutili perché astratti e puramente teorici. Ad esempio, personalmente non credo molto nella definizione di albi, standard o altre formalizzazioni.

Perché ne vale la pena

Ovviamente ciò non significa che si debba rinunciare a fare un po’ di chiarezza. Anzi, proprio l’esperienza di “Training on stage” mi insegna che una riflessione sul proprio lavoro aumenta la consapevolezza di ciò che si fa, apre la riflessione a nuove possibili vie da percorrere per fare meglio il proprio lavoro.

Per questo auguro al gruppo che si è appena costituito un buon lavoro e sono fiducioso negli stimoli che la loro discussione farà emergere.

E ovviamente invito tutte le colleghe e i colleghi a seguire il gruppo LinkedIn che hanno costituito.